14 marzo 2018, ore 18.00 – Palazzo Garzolini di Toppo Wassermann di Udine
Tavola rotonda sul tema: “Donne e tecnologia: ma le donne si intendono di informatica?”
La tavola rotonda, organizzata nell’ambito della rassegna Calendidonna, promossa dal Comune di Udine, in collaborazione con AICA Triveneto e Università di Udine, è stata un’ occasione per discutere sul ruolo della donna relativamente alle tecnologie informatiche e telematiche, anche in relazione alle recenti polemiche sulla incapacità “biologica” della donna ad occuparsi di informatica (v. il caso Google) in contraddittorio con un uomo, il tutto in occasione della festa della donna e come forma di promozione alla diffusione del sapere scientifico tra le studentesse di genere femminile.
Sono intervenuti:
- Maggie Cardona, Account Manager – Sanmarco Informatica SpA
- Marco Comini, Prof. di Informatica, Università di Udine
- Federica degli Ivanissevich, Public Relations & Communications Manager, Insiel S.p.A.
- Roberta Musina, Prof.ssa di Analisi matematica, Università di Udine
- Roberto Siagri, CEO Eurotech SPA
- Moderatrici:
Gea Arcella, Presidente Sezione Fidapa BPWITALY – Udine
Renata Kodilija, Presidente CUG, delegata Pari Opportunità Università di Udine
La tavola rotonda si è aperta con i saluti di Cinzia Del Torre, Assessore al Bilancio e all’Efficacia Organizzativa del Comune di Udine, che ha messo in rilievo il particolare interesse della tematica proposta nell’ambito di Calendidonna 2018, con un titolo già di per sé provocatorio.
Gea Arcella, presidente della sezione di Udine della Fidapa e promotrice dell’iniziativa, per dare l’avvio al dibattito, ha ricordato le polemiche sorte la scorsa estate in seguito alla pubblicazione del “Google’s Ideological Echo Chamber”, anche conosciuto come “Google memo”. Si tratta di un memorandum, datato luglio 2017, scritto dall’ingegnere James Damore, allora impiegato presso Google, critico delle politiche di discriminazione positiva attuate da Google per incrementare la diversità di genere sul posto di lavoro. In tale documento, Damore aveva sostenuto che sebbene la discriminazione esista, la distribuzione di preferenze e abilità di uomini e donne differisce in parte a causa di fattori biologici, aprendo la strada, di fatto, all’incremento degli stereotipi di genere.
Negli ultimi anni – ha detto Renata Kodilja – il numero delle laureate all’università italiana risulta sistematicamente superiore, il 59% secondo dati Miur, a quello dei laureati. Eppure i corsi di laurea scientifici ancora registrano percentuali troppo basse di studentesse iscritte. Nelle cosiddette discipline STEM, ovvero Scienze, Tecnologia, Ingegneria E Matematica, infatti, le studentesse sono il 30% circa sul totale degli iscritti.
Per comprendere le cause di tale situazione è senz’altro opportuno prendere in considerazione gli stereotipi culturali, le convinzioni e le aspettative che condizionano la scelta del corso di studi, ma anche gli stili educativi da un lato e le opportunità professionali, offerte dal mercato del lavoro dall’altro.
L’Account Manager Meggi Cardona, che gestisce centocinquanta clienti tra Peschiera Del Garda e Trieste per conto della Sanmarco Informatica SpA, ha messo in rilievo il rilevante apporto femminile nella sua azienda, a livello sia di conoscenze che di capacità di ascolto e di relazione con i clienti stessi.
Federica degli Ivanissevich ha raccontato due storie: la sua, personale, e quella dell’azienda per cui lavora, l’Insiel, una delle principali società italiane di Information Technology, che vede una cospicua partecipazione femminile nell’offerta di soluzioni informatiche per il governo e la gestione della Pubblica Amministrazione, della sanità e dei servizi pubblici locali.
Roberta Musina ha affermato che lo stereotipo che descrive le donne come poco adatte allo studio della matematica sta pian piano morendo. Le statistiche ci dicono ad esempio che, in Italia, la percentuale di donne laureate in questa materia è circa il 61% del totale di laureati. Bene? Non proprio, in quanto il corpo docente è composto da donne solo per il 35% sul totale dei docenti.
È questo un fenomeno che affligge tutta l’università, ma è certamente più marcato nei settori tecnico-scientifici. Per descriverlo si parla di effetto glass ceiling: un soffitto invisibile che preclude alle donne l’accesso ai più alti livelli della carriera.
Durante il Womath 2016 – Women and Research in Mathematics: the Contribution of SISSA – il congresso che si è tenuto alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) nel settembre 2016, organizzato con il contributo dell’Università degli Studi di Udine, tramite dati precisi, si è constatato che, purtroppo, non vi è la tendenza verso un rafforzamento della presenza femminile nell’ambito della ricerca. Al contrario, in particolare, si assiste a un lento calo della percentuale di donne fra gli studenti dottorati alla SISSA in Matematica.
In risposta a quanto emerso dal dibattito, il professore Marco Comini ha portato la propria esperienza di docente di informatica presso l’ Università di Udine, chiarendo di non aver mai notato, fra i suoi allievi, differenziazioni di genere nell’apprendimento e nella propensione per le materie studiate. Se proprio si vuole notare una differenza, le ragazze sono più diligenti.
Anche Roberto Siagri, CEO Eurotech SPA, è d’accordo sul fatto che non si possa parlare di differenziazioni di genere nella scelta delle attività da svolgere nella sua azienda, anche se si nota, in effetti, una prevalenza di donne nel settore della comunicazione e, al contrario, una prevalenza di uomini nello sviluppo di software e hardware. E’ evidente invece che in azienda si lavora meglio quando c’è una buona percentuale femminile.
Cosa si è dunque concluso al termine della tavola rotonda?
Come sostiene anche la Commissione Europea, la partecipazione delle donne alla Scienza e alla TECNOLOGIA può contribuire ad aumentare l’innovazione, la qualità e la competitività della ricerca scientifica e industriale e va dunque incoraggiata. Per farlo, a partire dall’educazione familiare, è importante sradicare certi stereotipi di genere ‘tradizionali’, secondo cui la matematica e le scienze in generale non sono cose da donna, incoraggiando le giovani a esplorare percorsi educativi non tradizionali.
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Il giorno 21 marzo 2018, alle ore 19.45
presso l’Hotel Ambassador di Udine
si è tenuto l’incontro sul tema: “La tutela del mare: una sfida per garantire il futuro del pianeta”
relatrice la dott.ssa Paola Del Negro
“La nostra Terra si dovrebbe chiamare Mare”: queste sono state le parole con le quali ha iniziato la sua conferenza la dott.ssa Paola Del Negro, ricercatrice presso l’OGS di Trieste, nella sezione Oceonografia. Questo per sottolineare il fatto che la superficie del nostro pianeta è ricoperta per due terzi da mari e oceani, mossi continuamente dalle correnti. E la nostra sopravvivenza dipende proprio dall’acqua del mare, che è in grado di assorbire gli eccessi di anidride carbonica, che altrimenti renderebbero irrespirabile le nostra aria.
Di primaria importanza, dunque, è la salvaguardia degli ecosistemi marini, attualmente, purtroppo, pesantemente minacciati dall’aumento della temperatura, dalla pesca indisciplinata, dalla diffusione di specie aliene e dall’impatto dei rifiuti derivanti dalle attività umane.
Questi ultimi, in special modo, hanno dato origine a delle vere e proprie isole di plastica: due nel Pacifico, due nell’Atlantico e una nell’Oceano Indiano, innescando tutta una serie di problemi di difficilissima soluzione.
In particolare, la cosiddetta “Great Pacific Garbage Patch” è un’immensa massa di spazzatura che vaga nell’Oceano Pacifico: oltre 21 mila tonnellate di microplastica, in un’area di qualche milione di kmq.
L’accumulo è noto da parecchio tempo, perlomeno dalla fine degli anni ’80, e ha un’età di oltre 60 anni. Un gigantesco vortice di correnti superficiali ha concentrato in quest’area i rifiuti formati principalmente da materiali plastici gettati o persi da navi in transito, o scaricati in mare dalle coste del Nord America e dall’Asia. Questa concentrazione, oltre che dall’effetto focalizzante delle correnti, dipende dal fatto che la plastica non è biodegradabile e permane per tempi lunghissimi nell’ambiente. Una lentissima degradazione, a opera principalmente della luce del Sole, scompone i frammenti plastici in sottili filamenti caratteristici delle catene di polimeri. Questi residui non sono metabolizzabili dagli organismi, e finiscono per formare un vero e proprio “brodo” nell’acqua salata dell’oceano.
Gli effetti per l’ambiente sono ovviamente pesantissimi. Si pensa soprattutto alle alte concentrazioni di policlorobifenili, che possono entrare nella catena alimentare, visto che i filamenti plastici sono difficilmente distinguibili dal plancton e quindi ingeriti da organismi marini, ma anche alla capacità della microplastica di fornire un supporto alla proliferazione di colonie microbiche di patogeni. Più in generale, è preoccupante la presenza di rifiuti pervasivi e tossici, in un ecosistema fondamentale, durante periodi di decine o centinaia di anni.
A livello mondiale, sono quantomai urgenti, dunque, degli interventi che siano in grado, in qualche modo, di arrivare, se non alla risoluzione, almeno all’attenuazione del problema.
Ciascuno di noi, d’altra parte, potrebbe contribuire al miglioramento delle attuali condizioni dell’ecosistema marino attuando delle modifiche, anche piccole, al suo sistema di vita, se non altro seguendo la “regola delle tre R”: riduci, riusa, ricicla.
O vogliamo che le isole di plastica diventino la metafora del fallimento del nostro modello di sviluppo, che si preoccupa troppo poco dell’impatto delle nostre azioni sull’ambiente in cui viviamo?